RUE DE LA PERLE

Ora in verità, colui che conosce un punto d'appoggio
possiede un punto d'appoggio sia sul facile che sul difficile.
E' l'occhio che è il punto d'appoggio; poichè è per mezzo dell'occhio
che si trova il punto d'appoggio sia sul liscio che sull'impraticabile..
Brihadâranyaka Upanishad VI, 2, 3

 
 


Sono solo in un appartamento di cui non conosco l'indirizzo. Di certo a Parigi, perché dalla finestra vedo, al di sopra del tetto, la facciata bianca del Sacré Coeur illuminata da un po' di sole, tra nuvole basse che la fanno splendere ancora di più.
Non so dire da dove io sia arrivato, né chi io sia e chi mi abbia portato qui: dico questo perché mi sono accorto di essere prigioniero in questa casa, che ha inferriate ad ogni finestra e una porta molto robusta chiusa a chiave dall'esterno.
Mi sono svegliato pochi minuti fa, molto intontito ma perfettamente sereno e rilassato; questa strana situazione non mi angoscia ma anzi mi infonde una sensazione di pace e di riposo, come stessi ancora dormendo. I miei abiti non mi dicono nulla: indosso dei pantaloni di tela grigi, una camicia e una giacca di tweed, tutt'e due firmate, e io non credo siano mie, anche se mi stanno bene. Ho all'anulare destro un anello matrimoniale senza alcuna data o nome incisi all'interno, come di solito si usa, e al mignolo della sinistra un pesante anello con sigillo, ma le bande trasversali, l' irriconoscibile animale rampante e la corona a cinque punte mi sono estranei.
Mi sono visto allo specchio antico dell'ingresso: ho i baffi e vicino al letto su cui mi sono svegliato ho trovato degli occhiali che sono senz'altro miei perché ne ho bisogno, e ciò mi dispiace.
Il frigorifero è pieno di vassoi d'alluminio con cibi precotti da mettere nel forno a microonde, e di scatolame: potrebbero bastare per dieci giorni; in un angolo della cucina c'è una cassa di Evian, ma niente vino. Sulla consolle dell'ingresso, sotto lo specchio, c'è una stecca di sigarette che non conosco, con la scatola rossa e bianca e il nome Xanthia, egiziane, ma io non desidero fumare.
L'appartamento è piccolo: un ingresso, un salotto con un grande divano, due poltrone e una vetrina colma di oggetti antichi: piccoli vasi attici, un vaso da fiori azzurro e alcuni libri antichi, di argomento strano. C'è, tra gli altri, una "Histoire de l'Empire" di Heiss, stampata all'Aja nel 1715 dal de Voys, e una "Histoire de l'Arianisme" di Louïs Maimbourg (S.J.), del 1678, "a Paris chez Sebastien Mabre-Cramoisy, Imprimeur du Roy, rue S.Jacques, aux Cicognes". Ci sono poi i tre volumi della "Fisica" di Feynmann e un altro testo, scritto in Latino. Ne riporto il frontespizio curioso:
"Oupnek-hat (id est Secretum Tegendum): Opus ipsa in India rarissimum, continens antiquam et arcanam seu Theologicam et Philosophicam doctrinam, e quatuor sacris Indorum Libris, Rak Beid, Djedjr Beid, Sam Beid, Athrban Beid, excerptam; ad verbum, e Persico idiomate, Samskreticis vocabulis intermixto, in Latinum conversum; Dissertationibus et Annotationibus, difficiliora explanantibus, illustratum: Studio et Opera Anquetil Duperron, Indicopleustae, R.Inscrip. et human. litt. Academiae olim Pension. et Direct. - Argentorati, typis et impensis fratrum Levrault IX (1801) - "Quisquis Deum intelligit, Deus fit".
Essi mi dicono solo che conosco il Latino, e il Francese, che però non è la mia lingua: penso infatti in una lingua diversa, e la pronuncio a voce bassa, ma non so dire se sia una lingua slava o altro, anzi il tentativo di definirla mi inquieta e incrina un poco la pacata serenità in cui si svolgono gli altri pensieri e i miei atti.
E' la prima emozione che provo da quando mi sono svegliato. Tutti i mobili e la gran parte degli oggetti sono antichi, e io riesco a definirne l'epoca e la provenienza senza difficoltà; anche i Trattati di Münster e Osnabruck, il cui testo ho trovato nel libro di Heiss, non mi sono nuovi. La camera da letto è piccola anch'essa, con un letto di noce, un armadio che contiene altri abiti e biancheria pulita della mia misura in grande quantità, un comodino, un telefono che non funziona. Il bagno è fornito di tutto, e la cucina è moderna ed essenziale: non c'è gas ma solo una piastra elettrica.
La luce e il modo del cielo che vedo dalla finestra mi dicono che siamo in primavera avanzata; mi sono svegliato un po' accaldato, e la finestra era aperta. Nel cassetto del tavolo da cucina ho trovato marijuana in una scatola di legno, e le cartine. Si sta facendo sera, non ho voglia di mangiare, mi distendo sul divano e guardo le nuvole dalla finestra; continuo a non provare nessun tipo di emozione, né inquietudine, né paura, né alcun desiderio di andarmene, di sapere o di capire qualcosa di più rispetto a quello che ho scoperto finora. Ciò non mi preoccupa, anche se mi rendo conto che è una stranezza.
Questa considerazione fa affiorare una formula che conosco bene ma non so da dove venga né, forse, cosa esattamente significhi:

L'aria che entra dalle finestre si è fatta più fresca ed è piacevole respirarla e lasciarsi andare a quest'assenza di emozioni che incrementa le sensazioni e mi fa sentire libero, ora che di fatto sono invece prigioniero. A meno che io non sia giunto qui da un'altra prigione, peggiore di questa. Non posso saperlo, non riesco a ricordarlo, né mi interessa. Ho sonno, e quindi l'unica cosa che io possa fare è distendermi sul letto, con la finestra aperta. Non ho fame, non provo alcun desiderio, solo questa indefinibile sensazione di benessere e di libertà. Non vi sono rumori di traffico, solo un suono costante e indefinibile, molto basso. Sotto al cuscino c'è un pigiama, ma preferisco restare vestito, dal momento che posso fare quello che voglio. Cerco di pensare a qualcosa, ma nessun oggetto, nessun ricordo o volto, nessun paesaggio è reperibile nella mia mente. Il sonno mi prende con una pesantezza di oppio, e anche le uniche cose di cui ho coscienza, cioè questa casa e questa mia attuale condizione, sfumano nell'assenza...



Ai margini del bosco usciamo su un leggero declivio, dove il sentiero si abbassa rispetto al terreno, di circa mezzo metro; camminiamo in discesa e, nell'ora del tramonto, ci distendiamo sul bordo, che è inclinato e nascosto, rivolti ad Occidente, a guardare il colore delle nubi e a sentire il silenzio del bosco che quest'ora concentra e assorbe completamente, come succede a noi, vicini ma separati dall'inopportunità di qualsiasi contiguità fisica. Ho a lungo desiderato la donna che è con me, e l'unico modo per poter continuare a vivere con lei è stato quello di accettare le sue condizioni: non pretendere di coinvolgerla nei miei desiderii, tenermi "calmo"; del resto so soltanto questo di lei: la sua vita, la sua storia e i suoi sentimenti, le sue sensazioni, le sue emozioni soprattutto, non mi sono noti. Conosco soltanto le sue affermazioni, ciò che annuncia categoricamente, come dall'alto di una conoscenza acquisita, e che io ascolto quasi devotamente, come fossero profetiche.
So di averla amata, di averla sentita, una sola volta, perduta in uno spasimo che era anche il mio, ma che lei ha vinto subito dopo, che non ha voluto si ripetesse, che abbiamo dimenticato come si dimentica una gaffe, una brutta figura, un gesto sconveniente. Da allora non ci siamo più toccati, e se per caso ci sfioriamo io mi allontano bruscamente, come impaurito e timoroso di violarla e di perderla; da allora abbiamo parlato soltanto, e l'unico contatto fisico è quello della luce che intercorre tra i suoi occhi e i miei, quando la ascolto e mi sembra di essere incluso, come un'impurità, in un minerale che pulsi con onde lunghe profonde.
Dal bosco si sentono giungere d'improvviso voci di gitanti che rientrano da qualche escursione. Lei (non so darle un nome), si volge verso di me impaurita, in un' emozione, che dovrebbe esserle estranea come ogni altra, e mi dice con lo sguardo, il suo sguardo, che teme di essere vista.
Impacciato, ma sicuro di non sbagliare, come rispondendo a una richiesta espressa chiaramente, mi sollevo e copro il suo corpo col mio, così che non possano vederla coloro che passano sul prato. Ma questo è anche un gesto di amore e di possesso, e, dopo tanto tempo da quando per l'unica volta è già avvenuto, bacio la sua bocca, tocco leggermente con le mie labbra, che sono sottili, le sue labbra piene e disegnate, e ci perdiamo in quell'antico spasimo dimenticato e rinnovato, ritrovando lo stesso sconcerto di allora, lo stesso piacere di un eccesso, improvviso, inopportuno ma desiderato.
Subito dopo però lei (qual è il suo nome?), mi dice, senza parole, che è stato solo per il desiderio di nascondersi, che non è cambiato nulla, mi rassicura facendomi comprendere che la vicinanza delle nostre menti e delle nostre emozioni, generata e garantita dalla separazione fisica, ci sarà ancora e di nuovo. Nel bosco cominciamo a sentire i rumori della notte, i fischi sommessi o rauchi, quasi rispettosi della condensazione del tempo e della luce, i fruscii inquieti del sottobosco che vive una condizione diversa da quella diurna. Le rocce affioranti cedono all'aria vicina (ma solo a quella vicina), il calore disperato del giorno, i rami oscuri degli abeti si confondono col cielo, che era così distante e delimitato, nel colore e nel sole, quando splendeva il pomeriggio.
Scendiamo un sentiero già buio, con le pupille dilatate che il colore bianco dei sassi più chiari confonde e ferisce, con l'odore fresco dell'erba umida che dilata le narici. Diviene possibile per me, senza che io tema, senza vi siano i suoi noti e silenziosi rifiuti, tenerla per mano in un contatto che solo l'intensità di quello precedente rende possibile e innocente, privo del pericolo di perderla per sempre. Non vi sono parole, ma sguardi, nelle brevi soste, di occhi che irraggiano il buio con un'onda, una pulsazione che non proviene da nessuna parte, che non ha alcuna origine naturale.
Mi prende e mi avvolge un tumulto di dolcezza, come fossi finalmente sicuro di me e di lei: è un abbandono felice alla sua volontà, al destino, a una condizione di affidamento che pochi conoscono o possono conoscere, e stringo la sua mano sapendo che potrò continuare a farlo, che questo gesto non mi sarà più vietato, e l'assenza del divieto mi conferma che il piacere di quel contatto è anche suo e non mio soltanto...



Il risveglio è improvviso, per l'abbaiare di un cane: il sogno che si è appena compiuto non mi lascia, come spesso avviene, la nostalgia, il desiderio di poterlo continuare, il dolore per la sua fine. Forse la situazione indeterminata in cui mi trovo, che focalizza ogni mio pensiero sul presente per l'inesistenza del passato e per l'impossibilità di immaginare o progettare il futuro, che penso figlio del passato , attenua lo stacco tra la condizione del sogno e quella del risveglio e permette la permanenza, anche prolungata, dell'emozione sognata. Mi chiedo anzi se sia stato il sogno a determinare ciò che ora provo, o se sia stata la mia condizione di indeterminatezza a plasmare il sogno. Eppure quella vicenda, quel susseguirsi di immagini intense ma sconclusionate sono le uniche cose mie che io possa ricordare, costituiscono, paradossalmente, l'unico appiglio a una realtà soggettiva, diversa da ciò che mi circonda; forse non è che la meccanica trasfigurata e censurata di qualcosa che pure deve esserci stato nella mia vita prima del mio arrivo in questo appartamento. Se è così quella donna di cui non so il nome è forse la mia donna, non una donna sognata, e quello strano amore è reale, anche se approssimato e simbolico, quel sogno è la mia realtà.
Anzi è l'unica realtà che io possegga: non posso che esserne felice.
Si è aperta di nuovo la strada in me l'emozione, che pensavo di aver perduto e non ricordavo, ieri, di aver mai posseduto, essendone quasi contento. Riscoprirla oggi mi fa sentire vivo, anche se mi attende una giornata puramente vegetativa, di cibi precotti, di acqua d'Evian, di inattività comunque e ancora dolce per me.
Questa assenza di fatti e di pensieri comincia ad apparirmi quasi come una preparazione, una purificazione, in vista di qualcosa che deve compiersi o che dev'essere atteso con la mente sgombra da emozioni spiacevoli, da fatti concreti, da azioni volontarie.
Inizio la giornata preparando un caffè, con fatica, perché l'intontimento del primo risveglio mi avvolge ancora, come un suono forte che isola dagli altri suoni, dai rumori dell'attività, e permette la concentrazione sulle sottili e serene emozioni che altrimenti svanirebbero. Riesco così a non dimenticare il mio sogno, la donna di cui non riesco a pronunciare il nome, pur se mi sembra di conoscerlo.
La sensazione di aver raggiunto una meta desiderata, anche se, oggettivamente, quasi irrilevante, e di aver ottenuto qualcosa di dolce e coinvolgente solo per il fatto di essere riuscito prima a rinunciarvi, instilla nel mio sangue allegria e commozione, e mi rendo conto che continuo a vivere il sogno anche da sveglio.
Non provo però alcun desiderio di definire meglio la condizione che in esso non appariva e ritenevo scontata, data per saputa. Non so niente altro all'infuori di quello che lì è avvenuto, non mi interessa sapere chi io sia, nella realtà o nel sogno, chi lei, da dove venissimo, dove stessimo andando, se quelle immagini rispecchino qualcosa di reale che potrebbe costituire un elemento della mia vita precedente a questa attuale condizione o se siano in ogni caso soltanto un sogno. Non sento il bisogno di ricostruire nulla, ma solo di assistere a una nuova costruzione partendo da questa dolcezza, da questo senso di fiducia, da questa sottilissima commozione.
Dopo il caffè mi accendo una Xanthia, strana sigaretta ovale e dal tabacco chiaro, ma la spengo subito, con un senso di nausea, quasi di colpa. Mi arrotolo con destrezza una cartina vicino al tavolo della cucina, ma mi accorgo che non è marijuana quella che pensavo, è molto più leggera e delicata e l'effetto non è diretto, immediatamente sensibile, ma più lento, protratto e pacato.
Ora, (è mattina) vedo il sole dalla finestra; non ci sono più nuvole, la facciata della chiesa si distingue appena tra altre campiture d'ombra: la stanza e il salotto sono illuminati.
Mi lavo e mi rado, mi siedo sul divano stendendo i piedi sul tavolino, bevendo da un bicchiere davvero bello, con piacere, l'acqua minerale. Sul tavolo qualcuno, prima che io giungessi qui, aveva posato un blocco di carta azzurra sottilissima e una penna Caran d'Ache, e io scrivo due parole che per me significano qualcosa, ma non so che alfabeto sia, di certo non sono caratteri latini. Scrivo anche un nome, un nome di donna, ma non so né leggerlo né capirlo, e quindi non posso neanche pronunciarlo, come forse vorrei fare, sia pure con un certo timore.
Osservo uno ad uno gli oggetti e i mobili che mi circondano, quasi volessi trovare in essi qualche risposta, ma mi rendo presto conto che non ho alcuna domanda da porre, né ad essi né a me stesso, che il problema non sussiste, che l'unica cosa che io debba fare coincide con quello che posso e che desidero: concentrarmi nell'attesa. Il non sapere cosa io attenda non è neanch'esso un problema, è certamente qualcosa di nuovo e di buono per me, se lo attendo e lo spero.
Comincia a cadere con un fruscio leggero la pioggia che a Parigi è dolce, e l'aria rinfresca un po'.
Comincio a pensare di mangiare qualcosa. Pasteggio ad acqua senza alcun desiderio di avere del vino. Neppure ciò mi sembra strano, anche se per un attimo tento di trovare un significato per queste stranezze e per il fatto che io non le senta tali. Ma ritorno subito alla mia sospensione, che io so chiamare epoché
Il pomeriggio passa veloce: mi diverto, come fanno i bambini, a leggere le nuvole, a immaginare forme naturali nella loro astratta bellezza luminosa di fluidi; le difficoltà che temevo nell'attendere il trascorrere del tempo non vi sono, come se l'attesa e ciò che si attende fossero una cosa sola, come se le loro cariche reciproche e interagenti fossero perfettamente proporzionali e immutabili. Noi di solito seguiamo percorsi opposti, molto poco razionali: quanto più importante per noi è ciò che aspettiamo e speriamo tanto più in fretta vorremmo si realizzasse, e non comprendiamo che in natura viene seguito il procedimento contrario, che è richiesta una preparazione.
Non ho orologi, ma in questa città rivoluzionaria e contemporaneamente immutabile, che ingloba il nuovo, come la piramide del Louvre, lo digerisce e lo assimila, non poteva mancare, in qualche casa vicina, un pendolo, che io immagino dell'Impero, che mi tiene aggiornato, assieme alle bellissime finestre, sul minuto trascorrere del tempo. E' sera, e io non ho proprio voglia di far fatica, di mettere un'altra razione, ancorché diversa e gustosa, nel forno a onde ( a onde?)

Mi sento un po' intontito e desidero fare una doccia, mi fermo a lungo sotto l'acqua tiepida, che si confonde per me con la pioggia che lava la città, mi rado con accuratezza, scelgo un abito scuro e una cravatta elegante, per la serata che mi attende. Le scarpe sono nere e lucide. Mi distendo sul letto ormai al buio, con la finestra ancora aperta, con un buon odore di pioggia che mi rasserena, e penso che non ci sia un limite a questa serenità. Quel rumore lieve ed uguale, il mio abbandono, il respiro delle mie narici, della mia gola, del mio cuore, della pelle, mi assopiscono. Scendo lentamente nella realtà che si sta costruendo per me...



E' il parco di un'antica villa, con radure ampie in mezzo alle quali si allargano eccezionalmente vecchissimi cedri e magnolie. I piccoli viali si dividono sotto boschetti più fitti, incrociandosi, scavalcando discreti ponticelli di legno, chinoiseries del Settecento, delicate e un po' stantìe. Sul laghetto vi sono anatre dal becco piatto, due cigni; sull'aia della dépendance alcuni rauchi pavoni. Un gruppo di liceali attende l'ora di tornare a scuola.
Ci siamo incontrati davanti all'ingresso, e tu mi hai chiamato per nome, con voce decisa, ma quando siamo entrati il tuo umore è cambiato, quasi subito: forse hai sentito la mia insicurezza, la mia incontrollabile tachicardia, e le hai scambiate per un'emozione volgare, anziché per quell'impreparazione poco consapevole che in realtà erano.
Ho una certa difficoltà a vederti distintamente, l'aria è umida, un po' triste. Mi rendo conto di sognare ma non ricordo quale sia la realtà rispetto alla quale questo sogno è un sogno. Mi parli di qualcosa, anch'io pronuncio frasi di cui però non colgo il senso: c'è in effetti un'atmosfera di sospensione, ma forse dipende proprio dal fatto che questa non è la realtà. Ti faccio leggere un foglio, aspetto di vederti partire, tutto si è concluso così in fretta, con un sapore di spreco...



Mi sveglia un temporale che godo nella sua forza, nel suono, nella luce di diamante del lampo e della sua permanenza retinica (è in questa effimera permanenza la sua bellezza?).
Mi alzo osservando con curiosità i miei abiti eleganti, ora stropicciati. Ieri sera mi sono preparato come per una festa, ma il sogno desiderato, concluso con quel senso di delusione, mi lascia perplesso per tutto il giorno.
Mangio svogliatamente un pasto che è diverso da quello di ieri: ognuno dei vassoi d'alluminio è stato preparato con attenzione da qualcuno che ha predisposto ogni cosa con grande cura, quasi affettuosa. E infatti questa prigionia non è sofferenza per me, anzi mi infonde calma, mi dona quasi piacere. E continuo ad affidarmi agli eventi con assoluta fiducia, che cresce, come se cominciassi a comprendere qualcosa. Non posso certo capire il fatto in sé, la condizione che vivo, ma comincio a intuire che c'è un metodo, una logica in tutto questo: non so però ancora nemmeno quale metodo, quale logica.
Ripenso al sogno di stanotte, ma non mi chiarisce nulla. Non ricordo, contrariamente a ieri, il viso della donna, né il nome che ha pronunciato salutandomi, e così mi accorgo di non conoscere il mio nome, e non me n'ero mai accorto finora. Ma non mi interessa di averne uno. E' il suo nome che conta, e io lo conosco, quindi non serve che io riesca a pronunciarlo o a scriverlo. Così non è necessario che io ricordi il suo volto, o i suoi occhi qui, in questa casa, da sveglio.
A sera arriva da nord un vento a raffiche forti, che fa turbinare polvere e qualche pezzo di carta. Non posso affacciarmi alla finestra, ma mi avvicino alle sbarre, e sento il vento sul viso, un po' di polvere che arriva veloce sulla mia bocca, come a ferirmi leggermente, ma non mi infastidisce; ogni cosa mi appare giusta, quasi piacevolmente programmata, e mi rende sempre più quieto, più calmo. Anche il sogno deludente, che non ha soddisfatto le mie attese (quali?), è invece un passo avanti lungo una strada segnata. E' per questa convinzione che la giornata passa veloce, o perchè so che la concluderò in un altro sogno? Attendo il sonno, oggi, con una leggera emozione, ma piena di gioia...



Sono in locale fumoso, con luci basse. Si sente una musica lenta e delicata, pentatonale, che sembra voler estrarre da noi come un filo di sensazione, dall'interno più nascosto. Ad ogni tavolo ci sono molte persone, io sono l'unico ad essere solo, e osservo alcuni segni rossi sulle pareti, sembrano una decorazione più che una scrittura, li unisce una linea continua, nella parte alta di ogni riga, e le interruzioni segnano probabilmente le divisioni verbali. Ci sono molti europei ma altrettanti orientali, tutti molto belli.
Lei si avvicina al tavolo dove la stavo attendendo, mi alzo in piedi e noto che è alta, ma i tratti del volto sono per me confusi in una luminosità trasparente, come immateriale. Forse dipende dalla mia incapacità di vederla qual è realmente, la stessa che mi impedisce di comprendere perchè sia ancora qui, e i suoi veri pensieri. Dovrebbe essersene andata da tempo, ma continua ad accettare di vedermi a scadenze molto dilazionate, e ad ogni rifiuto io temo di non rivederla più, e invece ogni volta riprende un discorso interrotto, prima che io cessi di sperare. Mi sembra che lei sappia esattamente il momento in cui potrei ritirarmi e rinunciare per la delusione, e un attimo prima che ciò avvenga fa in modo di rivedermi. Forse desidera che la rinuncia non sia per stanchezza, per debolezza, ma per forza acquisita. Ma allora quella stessa forza sarebbe esattamente la chiave che cerco ancora inutilmente, si trasformerebbe in una presenza reciproca intensa e ininterrotta, in un'identificazione. In quell'amore che io non so ancora concepire e lei probabilmente sì, anche se io non le permetto di manifestarlo che in questo modo, con questa lenta preparazione.
Forse ci fermiamo un po' a parlare, ma non sento qui le sue parole che si confondono con la musica degli strumenti ad arco, e quasi subito usciamo. Mi aspettavo il buio della notte e invece il sole splende alto e scotta.
E' vestita di verde chiaro e porta degli orecchini ad anello. L'aria è calda, con nuvole scure e basse, ma molto lontane, che il sole non schiarisce. La strada diviene un ponte affollatissimo, sul quale non passano macchine, ma la gente procede nei due sensi tenendo la propria sinistra, ordinatamente. Oltre il ponte c'è una grande costruzione che mi sembra un castello, ma non cupo come i castelli del medioevo europeo: è invece alta, luminosa, splendente di luce.
Un vecchio si avvicina con aria complice, come fossimo una coppia, e comincia a pronunciare frasi in una lingua sconosciuta. Ma ben presto mi accorgo che comincio a capire gran parte di quello che dice:
"C'era qui una volta una coppia di sposi, lui partì per la guerra, sul mare, oltre il mare, e le promise di rapirla nel vento, se fosse morto, alla prima bufera dell'inverno, vestita da sposa. Il loro figlio invece uccise la sua donna, che aveva sorpreso con un altro uomo".
Ci allontaniamo, non infastiditi. Mi sento osservato, dentro al cervello, come da un occhio penetrante; la sento parlare:
"bisogna aver fiducia, pazienza e speranza, saper attendere che le cose si compiano: potrebbe sembrare che non siamo noi a determinarle, e così temiamo che perdano il loro valore. Invece riusciamo a fare tutto quello che desideriamo, ma solo quando non siamo più noi soli a volerle, quando ogni goccia di quel fiume, ogni cellula di tutti questi corpi che attraversano ordinatamente il ponte, ogni ramo, ogni foglia, ogni nuvola lo vogliono anch'essi, quando ogni raggio di questo sole forte è orientato nella stessa direzione del nostro desiderio, e noi in quella dei raggi. La perla si forma a poco a poco, per creare il più bel gioiello che la vita possa produrre".
La prendo per mano, e non sento rifiuti, non si ritrae, anzi stringe la mia, per la seconda volta. Io sento che il mio corpo vive con un'intensità diversa dall'abitudine stanca al peso, quasi fosse variata la gravità, o la mia massa. O il nostro tempo.
Sul ponte volano molti uccelli che non riconosco, simili a rondini, ma grandi come falchi: mi promettono qualcosa di indefinibile, come lei, che pure è qui, e mi stringe la mano. Cosa potrei desiderare ancora? Mi parla, mi guarda...



Quanto dolce il risveglio di questo quarto giorno di prigionia accettata! Non so cosa potrei volere di più, ogni cosa mi sembra un regalo progettato solo per me, e invece forse lo è anche per le gocce dell'acqua del fiume, per i raggi del sole. Ripeto le sue parole, e forse preferirei scriverle, per non doverle dimenticare, ma non mi sembra necessario.
La separazione tra il sogno e la veglia è così poco definita, in questo mio luminoso carcere, che io vedo ormai le sbarre non come un ostacolo a un'indesiderabile fuga, ma come una protezione dalle insidie di una realtà invasiva, perchè essa potrebbe compromettere un progetto che io non ho contribuito a definire se non per il fatto che riguarda me e che io esisto. Mi convinco sempre di più che proprio di questo si tratta, e penso, a volte, che questo mio non agire, attendere, lasciarmi trasportare e viziare da qualcuno che decide per me sia consolante ma anche ingiusto, e vorrei poter fare qualcosa, sia pure dall'interno di questa reclusione, per determinare gli eventi. O forse lo sto già facendo, con questa dedizione, con questo non voler fuggire, con la fiducia che pongo nell'abbandonarmi al sogno e ai tempi che quella donna mi impone. Ma chi allora mi ha imposto il tempo e il modo della realtà, cioè della reclusione? Di certo non può essere lei, che non esiste se non nel sogno, non io, che non posso essermi chiuso qui da solo, e aver voluto dimenticare tutto, anche me stesso. Certo se avessi potuto sapere prima ciò che mi attendeva, o ciò che mi attende e che ancora non so, lo avrei fatto, e chiunque lo farebbe.
Apro una confezione di granchio Chatka, che viene da un fiume lontano, e mangio prima del solito. Poi scarabocchio un volto, il suo volto che non riesco a definire, su uno dei fogli azzurri, appoggiandomi al tavolino del salotto. E' uno sforzo inutile.
La giornata è calda, quasi afosa.
Con la fantasia colgo inutili rose per lei, che non c'è, e le dispongo nel vaso azzurro che ho trovato nella vetrina, e che sembra un alambicco boemo dove io distillo, ogni giorno di più, le sottili alchimie di un ineluttabile amore.
Il silenzio, limitato soltanto dal rumore continuo e indefinibile che ho sentito fin dal primo giorno, e dal periodo del pendolo Impero, è quasi assordante, diviene come un rombo che include il pulsare delle vene e il ritmo del respiro.
A volte mi sembra di riudire le sue parole, il tono modulato, quasi accentato, che la distingue, e allora immagino di baciare la sua bocca e la sua voce insieme. Credo di aver pensato poco fa a qualcosa di importante e di bello, di essere stato vicino a una soluzione. Mi rifiuto però di rincorrerla, perchè potrebbe essere sbagliata, essere solo mia. Devo invece attendere che la verità si palesi con la sua forza inequivocabile, quella che è condivisa da ogni foglia, da ogni cellula e da chi mi attende con fiducia paziente.
Leggo ancora le nuvole, disteso sul letto, illuminate al tramonto dal sole che a quest'ora non vedo più.
Nella penombra della stanza, nel quadro della porta che dà sul salotto, improvvisamente vedo lei, e mi stupisco dell'estrema calma con cui riesco ad accettare quest'apparizione, questa ulteriore stranezza. Eppure non sto dormendo, non sto sognando, e ogni volta che l'ho incontrata sono stato fortemente emozionato, e l'orologio batteva il tempo con rapidità paurosa. Mi sembra si stia avvicinando, vestita di rosso, come intenta, assorta. Penso che nel suo sguardo (riesco a vedere finalmente i suoi occhi!) ci sia desiderio, desiderio di me, della mia bocca. Mi vince una vertigine e cado nel sonno come se morissi...



E la rivedo, con lo stesso abito rosso, ma non vedo più i suoi occhi, mi sembra ora di non essere mai riuscito a vederli, in questi sogni pur così intensi. Essi sono l'unico luogo dove io posso incontrare la donna che amo, che non esiste nella realtà, o almeno così mi sembra, o spero. Ma perchè dico questo? Potrebbe sentirmi e non volermi più, capire che amo ancora soltanto me stesso, che vedo lei ancora, ed ogni cosa, come in uno specchio, che non so ancora uscire da me, che il mio desiderio è ancora una maschera.
Mi si avvicina e mi parla: non sono proprio riuscito a nasconderle ciò che stavo pensando. Mentre usciamo insieme da S.Vito girando a destra, nel vicolo costeggiato dalle piccole case colorate, mi dice:
"Non devi temere che io me ne vada, non devi avere paura di me: io ti amo più di quanto tu non ami me. Non ti sei mai chiesto perchè sono ancora qui, perchè io continui ad incontrarti, a parlarti, a seguirti ovunque tu voglia pur sapendo che ami ancora soltanto te stesso, pur avendo saputo, fin dall'inizio, quello che ti sei detto un attimo fa, pensando che io non potessi sentirti? La risposta sta nel fatto che fin dall'inizio ho voluto ognuna di queste cose che stanno avvenendo a te, a noi. Quindi sapevo che tu prima o poi saresti riuscito a dire queste parole a te stesso, o a dirle a me, e sarebbe stato meglio. Ma non importa, nulla deve pesare, o turbarti. Quando sarai riuscito a sentire che non è più così non sarà più necessario parlare."
E il mio sobbalzo di paura, il timore che ciò possa significare per me non vederla più la induce a precisare:
"...non sarà più necessario parlare di queste cose, tu non avrai più paura di perdermi, e così potrai perdermi in qualsiasi momento senza soffrire, io potrò perderti senza rinunciare a te, perdere me stessa in te senza farti del male. E sarà dolce perdersi insieme, e ogni cosa sarà e non sarà contemporaneamente, non ci sarà più né verità né menzogna, né attesa né compimento, né sete né sazietà. Ma ora guarda!"
E alza il dito verso il cielo: in mezzo alle nuvole appare il sole, tra i grandi camini destinati a scaricare verso l'alto i fumi sulfurei e mercuriali degli alchimisti che avevano dato a quel vicolo il suo nome attuale, il nome dell'oro inossidabile che essi stessi cercavano di diventare.
Nel quale io stesso mi sto trasformando.
Dalla porta di una delle case un giovane biondo, che indossa una maglietta e dei jeans, ci fa cenno di entrare. Io esito, inquieto, ma lei quasi con violenza mi trascina, stringendo la mia mano che è ancora (di nuovo) nella sua, in un gesto che è ormai costante, in un legame definitivo. Le dico con uno sguardo quanto io abbia atteso di poterla tenere per mano, quanto l'abbia desiderato, e poi entriamo.
L'interno non è buio, ma illuminato oltre misura da una luce diffusa, che non proviene da una sorgente identificabile. Il giovane, con un gesto da venditore ambulante, da ricettatore, ci fa vedere qualcosa, come per offrircelo in vendita. Sul palmo della sua mano riluce del proprio oro un medaglione a sei punte, con due parole, una sotto l'altra, composte ognuna da tre caratteri ebraici di smalto rosso. Al primo momento mi sembra sia il tetragrammaton, il nome impronunciabile del dio legislatore e guerriero; mi sembra allora di capire tutto, come se ognuna delle recenti cose avvenute nei sogni e nella veglia (che qui mi appare come sogno), divenissero decifrabili in quell'unica chiave di impronunciabilità, di indicibilità.
Ogni elemento di stranezza troverebbe spiegazione: il difficile nome di lei, l'amnesia, il progetto, l'abbandono a una volontà che mi determina, la prigionia accettata (null'altro che la fede). Il timore, il rispetto quasi religioso per lei, la sua inviolabilità. E' un'ipotesi spaventosa. Mi sarei innamorato di Dio. Ma il giovane non è un venditore, un misero simoniaco, perchè ci offre in dono quell'oggetto, e mi cinge il collo con il nastro che lo sorregge, con un gesto misurato, quasi ritualmente decorativo.
L' uscita da quella casa, l'ultimo tratto del vicolo, esulano dai percorsi tradizionali: ci troviamo a scendere, a tratti per gradini a tratti per ripidi viottoli, verso il fiume, col castello alla nostra destra, in alto. Da lontano, ancora dalla parte opposta al sole che illumina questa giornata divenuta d'oro per la sua volontà, anch'esso illuminato, è il ponte di Carlo.
Un altro ponte ancora.
Lo attraversiamo dopo aver seguito la direzione della corrente e vediamo il tramonto dietro la torre gotica. Da un melmoso gruppo di statue di bronzo si stacca verso l'alto la figura scarna e arsa di Jan Hus, il Veridico. "Ora sta tramontando, ma lo hai sul petto, presto lo avrai nel petto, io ho voluto che questo giorno di nubi, che minacciava la pioggia, divenisse di sole per noi, per me e per te". Non è possibile, solo se fosse veramente un dio...



Il risveglio è sconvolgente, tremo, col ricordo che mi intride ancora di sudore, e continuo a considerare quell'ipotesi folle. Anche questa giornata trascorre nell'assenza, nella mia completa dedizione al sogno. Guardo ormai svogliatamente gli oggetti di questa casa, che stavano quasi per diventarmi grati, che sembravano una realtà sulla quale poter basare una costruzione. Invece, dopo il sogno di stanotte, sono costretto a pensare che sarebbe stato comunque e solamente un restauro.
Quello che credo di aver compreso è infatti talmente strano ed entusiasmante, anche se pauroso, che qualsiasi altra ipotesi sembra vile e volgare al suo confronto. Pensavo di amare una donna e invece amo un dio, forse il Dio. Sono un eletto, un segnato dal destino; questi oggetti che mi circondano non hanno nulla a che fare col sogno, che è invece la sola realtà.
Questa predisposizione materiale, i cibi accuratamente scelti, le sigarette, la marijuana o che diavolo sia, gli abiti belli, sono inganni, per farmi credere che tutto ciò sia la verità.
Essa è invece nella notte illuminata dal suo sole, nel sogno, in quell'essere divino che solo lì mi appare e che io non posso avvicinare se non entro ben determinati limiti, che devo accontentarmi di contemplare e di ascoltare nei suoi messaggi di verità, senza pretendere niente altro.
E' un pensiero che mi dà una sensazione di riposo, come se finalmente potessi rinunciare ad agire ancora, a sperare in qualcosa d'impossibile, o di proibito.
Quelle due volte in cui ho osato unire il mio corpo al suo, in cui lei sembrava vinta, non sono altro che un sogno sacrilego, che devo dimenticare al più presto, cancellare dalla mia mente. Anzi, quando la rivedrò e potrò parlarle dovrò dirle quanto profondo sia il pentimento, quanto mi opprima ora la colpa commessa, e invocare il suo perdono...
"Non voltarti, sono nuda e tu non puoi vedermi così, forse non lo potrai mai fare se continui a farneticare."
La voce proviene dalla mia stanza, alle spalle della poltrona dove mi sono seduto a pensare.
Ora sì che i miei nervi cominciano a vacillare, che la mia attenzione è ferita, scossa.
Non è ammissibile: sono sveglio, non sogno, e lei mi parla anche nella realtà.
O non è realtà nemmeno questa?
Ricordo d'improvviso di averla vista qui anche ieri sera, sicuramente prima di addormentarmi. Allora è possibile che i due mondi siano uno solo, che lei sia una realtà; potrei averla anche fuori dal sogno.
Ho alle mie spalle un dio nudo che mi tenta, mi provoca, forse mi si offre. Ma il senso di colpa, la facile fuga dal rischio che mi è offerta dal timore del sacrilegio mi opprimono il petto, sul quale splende la stella praghese, con una costrizione anginosa. Mi sento soffocare, sprofondo in una torpida angoscia...



Ci troviamo in un appartamento piccolissimo, arredato con mobili da poco, vecchi. Una stufa a gas spenta ricorda l'inverno freddo di questa città che già scotta per l'estate vicina. Una lunga prospettiva alberata passa sotto alle finestre e si perde lontano. La percorre una colonna di camion militari sporchi con giovani soldati: hanno i berretti con il nastro nero dei carristi portati spavaldamente all'indietro, i ciuffi biondi sulle fronti. Un cartello stradale scritto in cirillico indica la direzione del centro: MOCKBA.
Ci siamo incontrati qui per la gentilezza di un amico, aprendo una porta che sembrava chiusa da molto tempo, in cima a una ripida rampa di scale. Come proseguendo un discorso lei dice:
"... nel Maghreb ho visto i cavalli arabi sfrenati nella corsa sulla sabbia, ho raccolto schegge di ossidiana, ho dormito su un letto coperto di tappeti in un vecchio forte della Legione, ho visto gli uomini blu: il blu sembra definire tutto ciò che è piccolo nella realtà e nei corpi, le palpebre, il sangue forse".
Ma cosa significano questi discorsi? Dovrebbe rimproverarmi, punirmi, o dirmi qualcosa di me, di se stessa, qualcosa di importante, di decisivo. Comprende e mi risponde subito:
"Nulla è importante o decisivo, questo devi sapere prima che io possa dirti qualsiasi altra cosa. Il colore blu delle palpebre e delle vene magrebine è importante quanto il tuo desiderio, quanto i miei sogni. I tuoi sensi di colpa sono una follia, come i pensieri che hai cominciato a distillare ubriaco quando hai pensato al tetragramma.. Osserva bene - e mi guarda come una madre il figlio che vaneggia nella febbre - pensa: sul medaglione, ora sul tuo petto, sono incise due parole, di tre lettere ciascuna; il nome di Dio invece, così come tradizionalmente viene scritto, ne ha quattro, anche se la quarta non è che la ripetizione della seconda e l'evoluzione delle prime tre. Altro è ciò che è scritto su di te in segni rossi: tu puoi e dovrai decifrarlo, pronunciarlo e comprenderlo; allora avrai compreso ogni cosa. Io non sono dio, né sono divina, almeno secondo quanto noi significhiamo con questo nome e questo aggettivo. Non dovresti dimenticare quanto hai letto sul libro del Duperron; non hai compreso perchè la tua mente era distratta dal desiderio del mio corpo: Quisquis Deum... Io sono solo una donna, la donna che tu desideri, che stai imparando ad amare, tu che non hai mai saputo far altro che chiedere. Hai sempre creduto che amare consistesse nel dare, o nel ricevere, o nello scambio di qualcosa. Soprattutto che all'agire dovesse corrispondere, nel tempo e nello spazio, una conseguenza, buona o cattiva a seconda che lo fosse l'azione determinante. Non è così, e te ne sarai accorto, come capita anche ai più rozzi e meno intelligenti, che si chiedono sempre il perchè di queste mancate corrispondenze tra azioni ed effetti, tra bene e male. Non possiamo rifugiarci, come eremiti vestiti di sacco, nell'inazione, nella meditazione, sperando che essa produca la fine delle conseguenze di ogni nostra scelta: anche questa decisione sarebbe comunque una scelta, e presupporrebbe un effetto, fosse quello soltanto di interrompere la catena apparentemente assurda di una causalità incomprensibile. L'unica possibilità invece è quella di agire, di scegliere, di volere, ma senza aspettarsi nulla, senza forzare, rinunciando ai frutti del bene e alla punizione del male. Non rinunciare a volere, ad agire, a desiderare. Allora ogni cosa desiderata si realizza; in questo modo ogni compimento non è la soddisfazione di un'attesa comunque dolorosa ma è un di più, un dono, un' eccedenza. Normalmente gli uomini colmano il dolore del desiderio con la gioia della sua realizzazione. Se esso si compie, la somma del male (la sete) e del bene (il dissetarsi) li riporta allo zero, all'indeterminato. Se poi il desiderio non si avvera i due mali si sommano, e più forte è il dolore di ogni successiva brama, come un debito incolmabile verso la propria felicità. Nella verità costituita dalla rinuncia agli effetti delle nostre azioni e dei nostri desiderii invece, ogni dissetarsi è gratuito, non ha dietro di sé alcun dolore di seti ardenti, e ci rende forti, sicuri, euforici, come chi gode di un dono inatteso."
Non sono riuscito a comprendere del tutto ciò che mi ha detto, eppure mi sembra di aver compiuto un percorso difficile, di essere vicino a una qualche soluzione che solo la sua presenza e i segni del mio petto confermano come una promessa definitiva.
Il rumore del viale sale forte fin quassù. I neon rossi con i simboli della stella umana, della falce (che forse era una mezzaluna crescente) e del martello scandinavo sono da tempo spenti, ma il sole di Mosca li fa brillare ancora. Cosa voleva dirmi, quale azione voleva suggerirmi?



Non riesco a pensare, ed ancora una volta un tuono mi sveglia, ma vicino tanto che io, già sveglio, posso vedere il suo lampo che illumina nel primo mattino, ancora buio, la Nymphaea Lotus che lei (non può essere stata che lei, mentre la sognavo) ha messo a galleggiare nel vaso azzurro acqua colmato fino all'orlo, al posto delle immaginarie rose che avevo colto per lei. Ha voluto dirmi di agire, mi ha tolto quell'angosciosa speranza, sacrilega, di aver amato un dio, e di essere perciò esentato dal volerlo ancora e dalla sofferenza del desiderio.
Non è così: non è rinunciando al desiderio, ma al timore di non vederlo realizzato, che se ne elimina il dolore. Alla mia insicura pigrizia lei non sembra essersi avvicinata a me, o aver colmato neanche un po' di quella distanza che ci separa, eppure mi sento di nuovo allegro, pieno di forza e di fiducia, sempre più innamorato. Ma senza soffrire.
In questa prigione reale si sta materializzando qualcosa: avevo bisogno di questa calma, di questo silenzio, per unire il sogno alla realtà; mi chiedo se sia effettivamente possibile o se non sia l'ulteriore espressione di un amore troppo drammatizzato, enfatizzato, come lei dice. Potrebbe essere il procedimento che spesso ci induce a scambiare per realtà ciò che vorremmo lo fosse. Ricordo bene che è stata proprio lei a mettermi in guardia da ciò, ma non saprei dire quando né dove. Questo chiedermi "dove" mi fa ricordare come la sua presenza affettuosa e sensibile sia sempre stata aspra come una frusta per i miei sensi troppo desti e per i miei atti mancati. Ma comprendo che lei l'ha valutata e voluta nella misura esatta del desiderio che accendeva, e che essa si è concretizzata anche qui, non solo nei luoghi del sogno.
In ciò vi è una parte della soluzione, della costruzione, dell'incastro di tessere smarginate, ma tutto è ancora molto sfumato e indefinibile per la mia vista debole.
Un altro elemento risolutivo, ma ancora ignoto, è costituito dal medaglione e da quelle sei lettere. Come potrò comprenderle, pronunciarle e renderle efficaci se non so neanche quale sia il mio nome, quale sia il suo?
Mi alzo dal letto intontito, ma presto l'aria elettrizzata mi sveglia e mi rinvigorisce. Le immagini provenienti dai sogni e quelle che si sono manifestate in questo appartamento si sovrappongono come negativi, e vedo chiaramente il suo volto, i suoi occhi, la sua bocca. Li voglio ancora, ma senza ansia, senza paura di non averli, senza fretta.
Con fiducia, pazienza e speranza. Con calma. Anche le parole che lei ha pronunciato, fino ad ora staccate e spesso apparentemente contraddittorie si fondono in un discorso logico e comprensibile, e chiariscono i suoi atti, le sue decisioni, quei procedimenti mentali che non ero mai riuscito a ricondurre ad unità.
Mi aggiro per la casa e forse per la prima volta sono un po' annoiato, ma non ho ancora alcun desiderio di uscire, di inoltrarmi lungo strade che non sono sicuro di conoscere. Non potrei farlo, perchè sono chiuso qui dentro. O forse se mi mettessi ad invocare aiuto, a gridare qualcuno verrebbe ad aprirmi?
Ma non ho nessuna intenzione di chiedere aiuto, anche perchè ormai so che solo una persona potrà aprire questa porta, ma non so dire se io o lei, o qualcuno, che ancora forse non è completamente formato, un homunculus, e che potrà crescere e divenire quello che io sono e quello che lei è, contemporaneamente e nel medesimo luogo.
Scaldo una pizza, l'unico piatto che credevo non mi piacesse e la mangio volentieri.
Penso ai suoi occhi.
Il tempo sembra essersi stabilizzato sul bello, il temporale ha lasciato l'aria pulita e trasparente; nuvole lontane splendono bianchissime: sono cumuli. Mi preparo per la notte, mi lavo in questa casa che non è mia, mi profumo con un flacone dal nome strano: Waterloo, mi addobbo ancora una volta con bei vestiti non miei, mi distendo sul letto e cado subito nel sogno...



Sono su una spiaggia assolata lungo il golfo Sarònico, lei è distesa vicino a me, al sole. Due giorni fa proprio qui è giunto a nuoto Alessandro Panagulis per girare l'interruttore dell'accenditore elettrico che doveva uccidere Papadopoulos, il capo della giunta militare.
Lei ora sta cercando di convincermi a non andare via, a non lasciarla; dice di avermi sempre amato con disinteresse, di non voler nulla da me, di avermi insegnato a vivere e ad essere libero senza volere nulla in cambio. Io la guardo perplesso e la vedo confusa in tutto quello che la circonda, nei raggi del sole, nelle infinite gocce che formano quel mare salato, in ogni gabbiano, in ogni dorso nero di delfino che a tratti brilla nel sole e scompare nel fondo. Si volta verso la sua amica e ride, sguaiatamente, con volgarità.
Mi avvio verso la strada dove passerà, alle due e dieci, l'autobus per Atene, che mi porterà fino a Piazza Egitto, di fronte al ristorante Nerantzes, alla pasticceria d'angolo. Mi volto per guardarla ancora, anche lei mi guarda, da lontano ormai, ma quando si accorge del mio sguardo si volta verso il mare, poi verso la sua amica, le parla e ride ancora...



Mi sveglio come se non avessi dormito ma vissuto questo sogno, sento ancora la voce modulata e accentata di quella donna che non ha un nome, nel suono del pendolo: mi chiama, e finalmente sento pronunciare il mio nome, e lo riconosco. Mi dice ancora che mi ama, che non mi porrà più condizioni, che i suoi tempi saranno quelli che io vorrò per i nostri incontri, che non mi imporrà altre attese, rinvii, sofferenze, desiderii inappagati.
Piange, mi chiede scusa.
Ho capito ormai che è stata lei, o quello che lei rappresenta, a organizzare la mia prigionia e la mia amnesia, affinché io potessi farla ritornare, in questa sospensione, in quest'assenza, da un passato lontano, dai luoghi diversi dove lei si era manifestata per me, fossero la costa dell'Attica, Mosca, Hyde Park, le Alpi, il Maghreb, o qualche paese dell'Est, forse la Jugoslavia. Tutti luoghi, per me di anni passati nell'odio e, inevitabilmente, nell'amore.
Ha preparato i cibi, i vassoi precotti, le sigarette, la Marijuana, ma non alcool, perchè la sua religione lo vieta. Ha creduto di darmi la libertà legandomi a sé con i suoi rifiuti, e invece (o così ?) mi ha liberato da me stesso proprio nel momento in cui siamo divenuti, nel sesto giorno, una sola cosa, fondendo le nostre menti con tutti i luoghi e tutte le nuvole dei cieli che ci hanno visti insieme.
Mi sono riconosciuto, e mi sono rifiutato, nel suo riso sguaiato, nell'accettazione del suo amore per me, del mio amore infinito per me stesso, nel ripetersi del desiderio che trasforma in realtà le immagini specchiate in innumerevoli occhi comunque incapaci di vedere l'unità del tutto.
Continua a gridare disperata (ma sono io che grido), di non lasciarla, di non lasciarmi, di continuare ad amarla, ad amarmi, con quella devozione, con quella sicura speranza.
Chiudo le finestre per la prima volta oggi che è il settimo giorno, e non la sento più. Almeno così mi sembra, o forse questa mia libertà è proprio quello che lei ha voluto per me, ma che poi non è stata capace di accettare per sé, come se io le avessi sottratto la forza che ora è mia.
Ora so che avrei potuto scrivere e quindi materializzare una conclusione diversa per questa storia, che è nata come un'operazione magica, che sarei stato capace di determinare a mio piacimento i sogni e la realtà, di trasformare questa libertà in prigionia e il sogno di amori lontani in una realtà sognata, e questa casa nell'isola di Ogigia dove fu schiavo Ulisse.
So che la chiave della porta è sul fondo della scatola dell'erba, nel cassetto del tavolo da cucina, sotto tre biglietti da mille franchi. Ripercorro invece questo appartamento, mi fermo davanti alla vetrina e riconosco di non aver più alcun vero interesse per la storia, e per i trattati di Münster e Osnabruck meno che mai, che non mi interessa l'eresia sociniana, che quelle due formule non erano altro che la legge di conservazione della stranezza di Gell-Mann e la probabilità della funzione d'onda, che non ho mai realmente compreso o condiviso.
Passo al vaso azzurro dove il fiore di loto è diventato rosso. Emana un odore nauseante di vino inacidito per il caldo e corretto inutilmente con cannella.
Mi tolgo di dosso gli oggetti d'oro: riconosco l'animale rampante del sigillo, e lo rimetto al mignolo della destra, infilo alla sinistra anche l'altro anello.
Lascio sul tavolo il medaglione praghese sul quale le sei lettere rosse brillano ormai perfettamente comprensibili, ma il mio nome ne ha sette, è quello che lei ha pronunciato, tradendosi, quando già aveva capito di avermi perduto, ed è in caratteri latini, ed è latino, la mia lingua, chiara, che non ha bisogno di crittografie.
Lascio anche i fogli di carta azzurra, uno con un nome, l'altro con un volto che doveva essere tutti i volti, compreso il mio.
Vorrei quasi togliere dallo scaffale le Upanishad tradotte per la prima volta dal Duperron e portarle con me, ma quel motto che il libro reca, mi respinge: sono già caduto altre volte nella tentazione di voler potere e capire troppo, e ancora una volta sono riuscito a vincerla. Non so per merito di chi. Lo lascio dov'è. Prendo la chiave e i soldi, scendo le scale e incontro un amico (o forse un'amica), che le sta salendo, ma non ho tempo per dir nulla, né sarebbe giusto: mi limito a consegnare le chiavi che nasconderà e dimenticherà, come ho fatto io, nella scatola dell'erba.
Nel frattempo qualcuno avrà preparato i cibi e le bevande, diverse dalle mie, per il suo soggiorno.
Esco dal portone, che è ornato da mascheroni neogotici, sotto un cielo limpidissimo, dopo tutti i temporali di questi giorni.
La luce forte mi fa girare la testa, ma senza paure o extrasistoli, e, dopo aver svoltato subito a destra in rue de la Perle, mi avvio tranquillo verso la Gare de Lyon.


Cappella di Scorzè, giugno 1994


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